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Aggiornamento 14-mag-2021       

 

 

 

 

 

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Cosa accadrà dopo la pandemia? Una piattaforma in dieci punti per rinnovare l’economia fondamentale

Manifesto della Foundational Economy Collective, Marzo 2020

"Ha fallito la concezione dell’economia come spazio omogeneo, interamente governato dall’obiettivo di incrementare il valore della produzione commerciabile e dal corpus unitario di metriche della contabilità nazionale, perché ha riprodotto quel che Galbraith negli anni '50 descriveva come una condizione di opulenza privata e miseria pubblica, nella quale la distribuzione del reddito e della ricchezza è estremamente disuguale e la maggior parte dei cittadini ha un reddito insufficiente"

Traduzione italiana di Antonio Salento (> scarica)

 

Quando la pandemia sarà finita, avremo bisogno di trovare un nuovo equilibrio, più lontano dalla logica dell’economia competitiva, e più vicino all’economia fondamentale, ovvero a quello spazio economico, per lo più protetto dalle dinamiche della concorrenza, nel quale si producono e si rendono disponibili i beni e i servizi essenziali per la vita quotidiana, che alimentano la qualità della vita e la sostenibilità. Bisogna prendere atto che la penetrazione delle grandi imprese finanziarizzate e del private equity in questo spazio economico, con i loro modelli di business orientati alla massimizzazione dei profitti nel breve termine, è un’intrusione indebita in attività fondamentali che, per assolvere alla loro funzione, possono garantire soltanto rendimenti bassi e costanti nel lungo periodo.

L'obiettivo generale della piattaforma che qui proponiamo è estendere la responsabilità ollettiva per la garanzia di beni e servizi fondamentali, in tutti i settori chiave. I dieci punti che seguono mostrano che questa estensione può essere realizzata attraverso un ventaglio di strumenti diversi, come le licenze sociali e la tassazione dei patrimoni. Mostrano inoltre che questa riorganizzazione dev’essere concepita in maniera diversa per ciascun settore di attività, dall’edilizia residenziale alla distribuzione alimentare, passando per la distribuzione energetica.

  1. L'estensione della responsabilità collettiva per le basi fondamentali del benessere inizia dalle attività sanitarie e di cura.

  2. Altre priorità immediate, anche in ragione dell’emergenza climatica, sono l’edilizia residenziale e l’energia, che deve essere restituita al controllo democratico.

  3. Occorre riorganizzare il settore alimentare togliendone il controllo alla grande distribuzione.

  4. Tutti gli attori economici coinvolti nell’economia fondamentale dovrebbero essere sottoposti a un principio di licenza sociale, ovvero a una regolamentazione che impone obblighi di ordine sociale e ambientale.

  5. È urgente riformare le imposte sul reddito, sui consumi e sui patrimoni per aumentare il gettito fiscale.

  6. Disintermediare gli investimenti in fondi pensionistici e in compagnie di assicurazione, affinché vadano (investiti) direttamente nella realizzazione e nella gestione delle attività fondamentali, è una strada maestra.

  7. È indispensabile accorciare le lunghe e fragili catene di approvvigionamento dei beni fondamentali, riconoscendo al tempo stesso la vacuità del localismo autarchico.

  8. Ogni città, paese e area rurale periferica dovrebbe sviluppare piani di transizione, nel quadro di cornici abilitanti definite dagli stati nazionali e dall’Unione Europea.

  9. Contro la cosiddetta post-democrazia in mano ai tecnici, abbiamo un urgente bisogno di ricostituire la capacità tecnica e amministrativa a tutti i livelli di governo.

  10. Infine, ma non da ultimo, i paesi europei devono assumersi la responsabilità dell’inadeguatezza dei sistemi di fornitura di beni e servizi di base (a cominciare dall'assistenza sanitaria) nelle regioni vicine, come il Medio Oriente e il Nord Africa.

Le necessità strutturali spingeranno politici illuminati a riconoscere la necessità di rinnovare l’economia fondamentale, a prescindere dalla loro ideologia di riferimento. Ma la spinta si può creare e mantenere solo attraverso ampie alleanze per il cambiamento, che includano partiti progressisti (di ispirazione socialista e ambientalista), organizzazioni sindacali e movimenti sociali radicati nella società civile, insieme a quella parte di conservatori e liberali che riconoscono l’importanza dei beni e dei servizi collettivi per il benessere della società. Costruire queste alleanze richiede capacità di compromesso e competenza, perché una piattaforma ampiamente condivisa dev’essere negoziata nei dettagli e poi trasformata in piani di azione, sostenuti da competenze specifiche.

 

IL FUTURO DI UNA DELUSIONE, La parabola delle Regioni in Italia

di Francesco Saponaro, Edizioni Franco Angeli / Eutropia, 2019

 

 

La chiave interpretativa di questo libro è probabilmente data da due citazioni poste alla fine dell’ultimo capitolo.

La prima è costituita dal titolo di un libro di Michel Crozier, uno dei più autorevoli studiosi di amministrazione pubblica: Stato modesto, Stato moderno. La seconda è il titolo di un articolo che Lenin scrisse sulla Pravda nel 1923 in occasione del dodicesimo congresso del Partito Comunista Russo: Meglio meno, ma meglio.

L’accostamento fra due personalità così diverse può apparire paradossale e provocatorio, e forse lo è nell’intenzione dell’autore, ma ci aiuta a comprendere come la qualità delle politiche pubbliche sia, questo sì, un tema trasversale che dovrebbe interrogare tutte le diverse posizioni politiche e culturali...

Algoritmi per il governo valgono solo in casi eccezionali e per lo più ci si deve affidare al bricolage costante delle risorse che permettono di connettere problemi e soluzioni. C’è governo quando non si danno soluzioni automatiche, né facili, né univocamente determinate. Governare è l’arte della navigazione a vista, che ovviamente diventa sempre più difficile quanto più ci si allontana dalla costa (C. Donolo, L’arte di governare, p. 4).

Vale la regola per cui a livello di politica ci sono soluzioni retoriche, come poi anche solo successi degli interventi; mentre a livello delle politiche le soluzioni sono impervie e i fallimenti numerosi (C. Donolo, L’arte di governare, p.135).

Il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti, e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo.

La derisione è giustificata, in quanto il riformista non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distruggono. (….) Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità ad ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose (F. Caffè, Il riformista, 1981).

L’utilità collettiva è un concetto molto vago, nel quale si può far entrare molta merce di contrabbando (L. Einaudi).

“Scusi lei è federalista?”. “Sì, da più di mezz’ora!” (F.T. Altan).

 

 

L’Europa di Ventotene

di Mauro Covacich,  Corsera, 30 giugno 2018

 

Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale

Chi sono gli altri? Come sono diventati così numerosi? Ma forse erano già tanti e io non l’avevo notato. Andavamo a farci la margherita nelle stesse pizzerie, giravamo per gli stessi centri commerciali, guardavamo le stesse partite, cantavamo le stesse canzoni. Come ho potuto non accorgermi che erano diversi? Tutti insieme eravamo la gente. Poi, d’un tratto gli altri sono cresciuti e, riversandosi nell’ampolla opposta della clessidra, mi hanno lasciato indietro, hanno trasformato me nel diverso, il fighetto minoritario, il granellino attaccato al vetro. Così ora la gente sta di là, anche se non si chiama più così, ora si chiama popolo. Come sono riusciti gli altri a diventare il popolo?

Guardo dalla finestra i militanti di Casa Pound arrivare alla festa raduno. Sono tantissimi, riempiono il quartiere. Ci sono anche magliette cattive e teste rasate da periferia disagiata, ma la maggioranza parcheggia buone macchine, compatte tedesche e familiari tirate a lucido da cui escono coppie dall’aria tranquilla, alcune con prole al seguito, forse ignare della gragnuola di decibel che sta per abbattersi sui timpani dei loro bambini, forse invece ansiose di trasmettere il verbo. Canteranno e salteranno per tutta la sera su pezzi urlati a squarciagola da gruppi vestiti da Thor e inneggianti il Valhalla, i cui frontman ringrazieranno con una voce fattasi di colpo rassicurante, quasi cortese, alla fine di ogni brano. Tra una canzone e l’altra, ritmato con la metrica ultras, partirà il coro Do-ve-so-no-gli-anti-fascisti! La prima volta ci resterò malissimo: ma come, non eravate anche voi antifascisti? Tu che sei uscito da quella macchina insieme a tua moglie come per andare a un ballo. Tu che, con quegli occhialini, mi ricordi tanto il mio medico. E tu, e tu, e tu. Quand’è che avete scoperto di credere nelle spranghe, nell’olio di ricino, nella formazione a testuggine? Fino a un minuto fa, tranne un’invisibile minoranza di teste calde, sembravamo tutti d’accordo. Anche l’onorevole Fini è venuto di qua. Eravamo talmente tutti dalla stessa parte che neppure ne parlavamo più. Chi ha tradito chi? Ma al secondo coro smetto di farmi domande. Ficco la testa sotto la sabbia, a mio modo — sono o non sono un fighetto minoritario? — ascolto in cuffie i Cantos di Ezra Pound letti da lui medesimo (youtube).

Prima erano loro i cospiratori, ora, a quanto pare, si sono presi la gente e il cospiratore sono io — da figlio studiato di operai a privilegiato coi libri in casa — è la constatazione a cui mi rassegno qualche sera più tardi, assistendo non più a un raduno organizzato bensì a una discussione spontanea sul retro di un ristorante. Mi trovo al tavolino di un bar insieme a due amici, non proprio di fronte al crocchio, ma abbastanza vicino da sentire l’accavallarsi concitato delle voci. Sono due giovani cuochi e una cameriera in pausa sigaretta, un loro amico fattorino seduto sullo scooter e un paio di uomini intorno ai cinquanta, sulla soglia dei loro negozietti di souvenir. Non siamo più a Roma, ma a Ventotene, l’isola del manifesto omonimo, ora meta dei privilegiati coi libri in casa, soprattutto in bassa stagione. La discussione del crocchio verte sugli sbarchi: i migranti e la linea dura del nuovo governo. Ma, come scopro presto, la concitazione non è causata dai diversi punti di vista, bensì dall’entusiasmo di pensarla tutti allo stesso modo. Si tolgono la parola l’un l’altro per darsi ragione. Non proverò qui a ripetere le battute del dialogo — non ho intenti parodistici —, posso dire che erano tutti a favore di Salvini. Li eccitava molto il nuovo ministro, come lui non sopportavano più i loschi affari delle Ong e l’invasione di tutti questi stranieri (non i turisti, ovviamente).

Com’è che siamo diventati così? Parlavano di pacchia, di pacchia finita, usavano le sue stesse parole. Mo’ basta, dicevano in continuazione, adattando i proclami del ministro alla parlata napoletana. Erano piuttosto informati, mediamente istruiti, uno dei due negozianti si è infervorato sull’opportunità di un regime dittatoriale, ha usato proprio questa espressione, un «regime dittatoriale» per difendere la nostra «sovranità». Al che tutti hanno annuito, ovvero hanno iniziato a parlarsi uno sull’altro, e il negoziante ha aggiunto che la speranza di una simile svolta gli veniva anche dalla simpatia con cui finalmente ci guardavano gli Stati Uniti e la Russia. Salvini tiene o’ sostegno di Trump e Putin, i cuochi erano entusiasti di una simile certezza. Erano locali, abitanti di un’isola senza venditori ambulanti né africani questuanti, un posto dove tutti vivono discretamente del proprio lavoro. Passavano ogni giorno davanti al carcere di Santo Stefano, davanti alla biblioteca intitolata a Mario Maovaz, davanti al cimitero dov’era seppellito Altiero Spinelli. A scuola avranno ascoltato mille volte la storia del manifesto, degli amici di Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, della militante tedesca Ursula Hirschmann, che odiava a tal punto i nazisti da parlare col fratello solo in francese. Ma queste sono le solite bolse reprimende di quelli che spaccano il capello in quattro e poi vanno farsi lo spaghetto allo scoglio in camicia di lino. Eccoli lì, ci vedevano seduti al tavolino del bar, noi tre e altri quattro gatti i cui argomenti sarebbero stati scacciati con un semplice gesto della mano, come si fa con una mosca. I cicisbei, i professorini, i fighetti minoritari. Com’è che siamo diventati così? Eravamo in tanti, ora sono finiti tutti dalla loro parte. Il crocchio parlava a voce alta, non ci provocava, ma voleva comunque che sentissimo. La nostra presenza non agiva più sui freni inibitori di nessuno. Avevano dimenticato le lezioni sull’Europa. E prima ancora avevano dimenticato le dichiarazioni di Salvini sui napoletani. Un tempo magari avevano votato Pd, più di recente 5 stelle, mo’ erano sei convinti leghisti di Ventotene.

Non è colpa della paura. Si dà la colpa alla paura, ma io non credo che c’entri la paura. In Ungheria, in Turchia, in Austria, forse anche in Francia, e ora anche qui in Italia sono la maggioranza, che motivo hanno di avere paura? Secondo me non c’entra neanche la povertà, non in maniera decisiva, né la cosiddetta arretratezza socio-culturale: sia i ragazzi alla festa di Roma che questi di Ventotene mi sono parsi tutt’altro che arretrati. E allora cosa? Ci ho pensato a lungo, poi è successo che ho vinto un premio. Nella mia città, Trieste. «Come personalità che più si è distinta nell’anno, in una visione transfrontaliera e multirazziale, tipica dell’opera di Fulvio Tomizza» recitava a un certo punto la motivazione. Forte di ciò, e dell’amore per lo scrittore a cui il premio è dedicato, nel discorsetto non ho potuto evitare di ricordare che oggi i profughi istriani come Tomizza, o come mia madre, all’epoca richiedenti asilo pur essendo già in gran parte italiani, sarebbero finiti nei centri di semidetenzione invocati dal sindaco di Trieste e dal neogovernatore del Friuli Venezia Giulia nelle interviste di quei giorni. Al termine della cerimonia una signora con tre cognomi mi ha fatto sapere a mezza bocca che la gente non ne poteva più di tutti questi che ciondolano per strada con telefonini da cinquecento euro. Ecco di nuovo la gente, la gente che ero stato e non ero più. Ora apparteneva a loro. La maggioranza silenziosa era passata di là e non stava più in silenzio. A cena l’assessora ha tenuto a dirmi che suo nonno aveva fatto la marcia su Roma e che lei era fiera di sentirsi fascista e leghista. Al che — sì, lo ammetto — temo che la situazione mi sia un po’ sfuggita di mano, e me ne scuso. Però ho capito una cosa. La gente con cui mangiavo la pizza a Roma o a Ventotene o a Trieste non è diventata più paurosa, né più povera o più ignorante. È solo orgogliosamente egoista. Al tempo dei comunisti e dei democristiani sarebbe stata una vergogna, ora è un diritto. Sono stati proprio gli altri a liberarci dall’altruismo. Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale. Ci era rimasta la nazionale, ma poi abbiamo visto com’è andata. (> Leggi tutto)

 

 

 

Si può salvare l'euro?  di Joseph E. Stiglitz, 13 giugno 2018


Antonio Costa, leader portoghese

L'euro potrebbe avere presto un'altra crisi. L'Italia, la terza più grande economia della a zona euro ha scelto ciò che nel migliore dei casi può essere definito come un governo euroscettico.  Questo non dovrebbe sorprendere nessuno. la vicenda italiana è un altro episodio prevedibile (e previsto) nella lunga saga di una valuta mal progettata, in cui il potere dominante, la Germania, impedisce le necessarie riforme e insiste su politiche che esacerbano i problemi, usando una retorica apparentemente destinata a infiammare le passioni.

L'Italia ha avuto risultati mediocri dal lancio dell'euro. Il suo PIL reale nel 2016 (aggiustato dall'inflazione) era lo stesso del 2001. Ma l'eurozona nel suo complesso non sta andando bene. Dal 2008 al 2016, il suo PIL reale è aumentato di appena del 3% in totale. Nel 2000, un anno dopo l'introduzione dell'euro, l'economia americana era solo il 13% più grande della zona euro; nel 2016 era più grande del 26%. Dopo una crescita effettiva del 2,4% nel 2017 - non abbastanza per invertire il danno di un decennio di sofferenza - l'economia della zona euro sta di nuovo vacillando.

Se un paese fa male, è colpa del paese; se molti paesi stanno facendo male, è colpa del sistema. E come ho messo nel mio libro The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe, l'euro era un sistema quasi progettato per fallire. Ha tolto i principali meccanismi di regolazione dei governi (interessi e tassi di cambio) e, piuttosto che creare nuove istituzioni per aiutare i paesi a far fronte alle diverse situazioni in cui si trovano, ha imposto nuovi obblighi su deficit, debito e persino politiche strutturali, spesso basati su teorie economiche e politiche screditate. L'euro avrebbe dovuto portare prosperità condivisa, che avrebbe migliorato la solidarietà e promosso l'obiettivo dell'integrazione europea. In effetti, ha fatto solo il contrario, rallentando la crescita e seminando la discordia.

Il problema non è una carenza di idee su come andare avanti. Il presidente francese Emmanuel Macron, in due discorsi, alla Sorbona lo scorso settembre e quando ha ricevuto il Premio Charlemagne per l'unità europea a maggio, ha articolato una visione chiara per il futuro dell'Europa. Ma il cancelliere tedesco Angela Merkel ha effettivamente gettato acqua fredda sulle sue proposte, proponendo, per esempio, minime somme di denaro per investimenti in aree che richiedono urgentemente investimenti.

Nel mio libro, ho sottolineato l'urgente necessità di uno schema comune di assicurazione dei depositi, per prevenire le azioni contro i sistemi bancari nei paesi deboli. La Germania sembra riconoscere l'importanza di un'unione bancaria per il funzionamento della moneta unica, ma, come sant'Agostino, la sua risposta è stata: "O Signore, fammi puro, ma non subito". L'unione bancaria sembra essere una riforma da intraprendere non si sa quando in futuro, non importa quanto danno si sta accumulando nel presente. Il problema centrale in un'area valutaria è come correggere il tasso di cambio da disallineamenti come quello che ora colpisce l'Italia. La risposta della Germania è aumentare la pressione sui paesi deboli che già soffrono di disoccupazione elevata e bassi tassi di crescita. Sappiamo dove questo porta: più dolore, più sofferenza, più disoccupazione e anche una crescita più lenta. Anche se alla fine la crescita riprendesse, il PIL mai raggiungerebbe il livello che avrebbe raggiunto se si fosse adottata una strategia più sensata. L'alternativa è spostare maggiori oneri per l'adeguamento sui Paesi forti, con salari più alti e domanda più forte sostenuta da programmi di investimento governativi.

Abbiamo già visto il primo e il secondo atto di questa commedia molte volte. Un nuovo governo è eletto, promettendo di fare un lavoro migliore negoziando con i tedeschi, porre fine all'austerità e progettare un programma di riforme strutturali più ragionevole. Se i tedeschi non si muovono affatto, questo non è sufficiente cambiare il corso economico. Aumenta il sentimento antitedesco, e qualsiasi governo, sia di centrosinistra che di centrodestra, che suggerisce riforme necessarie è emarginato. . I partiti anti-establishment guadagnano.

Nell'area dell'euro, i leader politici si stanno consegnando ad uno stato di paralisi: i cittadini vogliono rimanere nell'UE, ma vogliono anche porre fine all'austerità e  riguadagnare la prosperità. Viene detto loro che non si possono avere entrambi. Speriamo sempre in un cambiamento della sensibilità dell'Europa settentrionale, i governi in difficoltà mantengono la linea e la sofferenza della loro gente aumenta. Il governo a guida socialista del primo ministro portoghese António Costa è l'eccezione a questo modello. Costa è riuscito a riportare il suo paese in crescita (2,7% nel 2017) e ha raggiunto un alto grado di popolarità (il 44% dei portoghesi ritiene che il governo stava superando le aspettative nell'aprile 2018).

L'Italia potrebbe rivelarsi l'altra eccezione, anche se in un senso molto diverso. Qui il sentimento anti-euro proviene sia dalla sinistra che dalla destra. Con il Partito della Lega di estrema destra ora al potere, Matteo Salvini, leader del partito e politico esperto, potrebbe effettivamente dare corso ai tipi di minacce che i neofiti altrove hanno avuto paura di implementare. L'Italia è abbastanza grande, con economisti abbastanza buoni e creativi, per gestire una partenza di fatto di una doppia valuta flessibile che potrebbe aiutare a ripristinare la prosperità. Ciò violerebbe le regole dell'euro, ma il peso di una partenza de jure, con tutte le sue conseguenze, verrebbe trasferito a Bruxelles e Francoforte, con l'Italia che fa conto sulla paralisi dell'UE per impedire la rottura finale. Qualunque sia il risultato, l'eurozona sarà lasciata a brandelli. Non si deve venire a questo. La Germania e gli altri paesi del nord Europa possono salvare l'euro mostrando più umanità e più flessibilità. Ma, ho visto troppe volte i primi passi di questo dramma, che non credo più che questa storia possa cambiare. (> leggi la versione in lingua originale)

 

 

 

 

Incubi e sogni capaci, forse, di turbare il sonno della ragione. Sognare il buon governo è ancora possibile?

 di Pier Carlo Palermo, Milano, 10 maggio 2018

 

 

 

I tempi oscuri sono spesso popolati da incubi, che possono nascere direttamente dalle criticità delle situazioni reali, ma anche essere la conseguenza delle speranze deluse di qualche progetto di rigenerazione, che è rimasto incompiuto o ha provocato effetti perversi. Non mancano neppure le aspirazioni a “fare luce”, che possono assumere la forma del sogno: come presa di distanza da una realtà deludente, ma anche anticipazione di un futuro diverso, forse utopico, forse possibile. Viviamo forse, di nuovo, in tempi oscuri? Potremmo osservare, con Benjamin (1986), che ogni società ha la sensazione di trovarsi, nel suo tempo, al centro di una crisi decisiva (in questo senso, “ogni epoca si può sentire a suo modo moderna”). Certo, il nuovo millennio è costellato da nuovi e gravi incubi, a prima vista spesso inattesi (ma anche la Belle Epoque, un secolo prima, non si aspettava gli orrori del ‘900); mentre la produzione di sogni sembra assai più debole e incerta rispetto alle tradizioni dei Lumi, utopiche o riformiste. Tuttavia, saremmo ancora lontani, per ora e per fortuna, dai tempi oscuri dei totalitarismi che hanno ispirato le riflessioni di Hannah Arendt (Men in Dark Times, 1968)? Io credo che un’associazione tra le due fasi sia giustificata sulla base di un carattere comune. Arendt ci spiega che è oscuro un periodo storico nel quale entrano in crisi, al tempo stesso, la sfera pubblica e le virtù repubblicane dei soggetti. Rigenerare uno spazio di discussione aperta e di senso condiviso è tanto importante quanto poter contare su soggetti che pratichino amor mundi, responsabilità civica, spirito critico e solidarietà sociale. Solo in questa prospettiva incubi e sogni possono mettere in crisi il “sonno della ragione” (dove il motto, abusato, di Francisco Goya è rivisto in una sequenza rovesciata: il punto non è che la ragione dormiente possa generare mostri, ma la possibilità di “fare nuova luce” anche grazie a incubi e sogni). E’ questa la prospettiva secondo la quale mi piace ripensare insieme due opere di Carlo Donolo (nell'immagine): l’immagine inquietante di Italia sperduta, il Sogno del buon governo, già pubblicato nel 1992, ma riedito, con integrazioni nel 2011. Due immagini a contrasto, se pur temporalmente allineate, che conservano una piena attualità a distanza di quasi un decennio. Se gli stessi incubi sono ancora incombenti, e forse più gravi, sognare il buon governo è ancora possibile, e come?

Articolo presentato a Milano alla Giornata di studi in onore di Carlo Donolo il 10 maggio 2018  (> leggi l'articolo completo).

 

     

 

 

DEMOCRAZIA E SVILUPPO SOSTENIBILE

di Carlo Donolo, 2010

 

Finora il futuro della democrazia e quello della sostenibilità hanno marciato per lo più separati, forse non del tutto nei fatti, ma certo nelle riflessioni pubbliche ed anche nelle analisi scientifiche. Si dà per scontato che la democrazia sia capace di trattare questioni di sostenibilità, e che la sostenibilità trovi il suo ambiente favorevole proprio in contesti democratici. Ci deve essere del vero, ma le cose non sono così semplici come vorremmo. Ma qui ci poniamo specialmente il problema di come le democrazia radicate a scala nazionale si comportano a fronte della crisi ambientale e dei dilemmi della sostenibilità. La sostenibilità diventa il test decisivo della capacità di governo democratico dei processi. La democrazia come regime politico ha mutuato dall'economia, da cui sostanzialmente dipende, i tempi brevi della valorizzazione. In economia il tasso di sconto sul futuro è molto alto, ovvero gli interessi generati in futuro valgono molto meno di quelli prossimi. La politica è diventata subalterna al punto da accogliere lo stesso criterio. Ma la sostenibilità è questione appunto di assegnare agli stati futuri del mondo valori alti e non bassi. Nelle costituzioni tutto ciò viene detto. Le pratiche democratiche non seguono. La sostenibilità non è il tema tra gli altri, che si aggiunge alla lista degli interessi da servire, ma è il tema che definisce gli altri. Nel contesto del climate change questo sta diventando una verità insieme drammatica e lapalissiana.

I beni comuni globali poi come res nullius sono stati assoggettati a una persecuzione feroce (emblematico il caso dei cetacei, ma oggi ancor più il caso delle foreste pluviali o delle zone umide). Si pone allora una questione impolitica: come devono essere rappresentati questi beni in un processo rappresentativo? Qui la democrazia attuale mostra tutti i suoi limiti. I beni comuni sono presenti nel processo rappresentativo tramite le menti umane che li collocano nel frame dei loro interessi ed identità. La politica lavora su questi ultimi e intravvede i beni comuni solo occasionalmente: se c'è tempo e denaro avanzato, se pensare ai beni comuni non danneggia interessi o identità. Ma nulla può frenare il corso aggressivo della mercificazione, appropriazione e monetarizzazione. Tanto meno lo vogliono in fondo i governi democratici che devono far quadrare i bilanci. E tuttavia, la questione è posta. Si deve trovare una modalità non riduttiva di rappresentazione-rappresentanza dei beni comuni (qui li prendo a epitome della questione ambientale e della sostenibilità) nei “parlamenti” democratici.

Non solo questi universi di beni comuni non sono attualmente rappresentati – se non blandamente e compatibilmente con molte altre cose meno importanti ma più urgenti – ma si consideri che, come è noto, la democrazia fa fatica a rappresentare le future generazioni. Questo tema è fondante per la nozione di sostenibilità, ma è stato anche ben approfondito in filosofia morale, diritto costituzionale e teoria sociale. Solo la sostenibilità a partire da oggi può garantire questo contesto decisionale aperto. Altrimenti quando diciamo che quegli interessi non sono conoscibili e quindi non rappresentabili nel processo democratico dobbiamo dire che non vogliamo garantire alle future generazioni neppure le misere chance che abbiamo avuto noi.

Inoltre il ciclo politico è condizionato da quello economico, e quindi per le riforme bisogna aspettare il momento fortunato, alquanto raro, di una felice congiunzione dei due cicli. Sembra però che in futuro ciò sia difficile da ripetere come nei 30 gloriosi. Si potrebbe rovesciare allora la saggezza corrente ed assumere invece le situazioni di crisi come opportunità di innovazione qualche paese lo fa (magari la Cina stessa). La politica dovrebbe cominciare a sospettare che il vecchio adagio va rovesciato: non “con la crescita del PIL ci saranno le risorse per sistemare tutti i guai”, ma viceversa che “se non inizi a sistemare ora i guai non potrai avere più nessuna crescita del PIL”.

La green economy è una modalità di fare business con la sostenibilità e precisamente con l'offerta di soluzioni che: riducono gli impatti, il consumo di materie prime ed energia, riducono i costi di trasporto, l'ingombro degli imballaggi, con tecnologie e processi che permettano se non di chiudere i cerchi almeno di abbattere di un ordine di grandezza le quantità degli inquinanti e degli impatti aggregati. Questa è una via maestra – nel contesto di economie avanzate e di democrazie pluraliste – e dovrebbe funzionare.  Una parte del made in Italy e delle distrettualità può ben riciclarsi su questo terreno e in parte lo sta facendo, malgrado o grazie alla crisi.

rendiamo di petto una questione spinosa e ricca di equivoci pericolosi. Quale il ruolo dei regimi democratici nella transizione green e specificamente nel contrasto alle crisi ambientale e climatica? La democrazia ce la può fare a governare questi passaggi, le relative emergenze, a preservare le future generazioni, a rendersi sostenibile? Sappiamo che in questa fase di metamorfosi del capitalismo tra globalizzazione, finanziarizzazione e mercificazione totalizzante la democrazia è entrata in una delle sue crisi storiche più problematiche. Nel senso che ha dovuto cedere di fronte alla potenza fattuale del capitale e dei suoi imperativi. Molte acquisizioni del II dopoguerra stanno evaporando, tra diritti del lavoro, crescenti diseguaglianze, e atrofia della funzione pubblica. Anche lo stato di diritto sta subendo seri colpi, per lo spostamento della sovranità oltre i confini nazionali e sopratutto per il prevalere di regolazioni mercatorie rispetto a quelle fondate sulle costituzioni repubblicane. Dobbiamo preoccuparci per questi sviluppi, al momento dominanti e difficilmente contrastabili? Come potrà una democrazia impoverita e ampiamente manipolata reggere al confronto con grandi questioni nazionali e continentali e globali che tutte insieme presentano i loro conti? Il tutto in un contesto in cui ci sono populismi rampanti, radicale affievolimento di ogni istanza riformista di radice socialdemocratica, estremo impoverimenti del lessico politico e delle ragioni ammesse nella sfera pubblica, e in cui - come da tempo è stato notato - la politica appare decisamente subalterna alle ragioni dell'economia. Per paesi come l'Italia è chiaro che l'unificazione europea rispondeva anche al bisogno di costruzione e manutenzione di un modello sociale in cui la coesione e i processi capacitanti avessero un certo peso. Da tempo però, e almeno dal “governo” Barroso, anche l'UE si è adeguata ai parametri imposti dall'economicismo finanziario più spietato, come si è visto in modo esemplare nel trattamento inflitto alla Grecia.

Molti segnali inducono a pensare che la crisi della democrazia non consista tanto nel suo impoverimento come regime parlamentare e rappresentativo (data la supremazia quasi incontestata di componenti oligocratiche, plutocratiche e tecnocratiche), quanto nella sua fragilità o vulnerabilità di fronte alle sfide dell'epoca. In parte del resto la stessa forza acquisita da fattori non democratici (il mercato, il denaro, la tecnica ed altro ancora) registra già una forma implicita di supplenza alla democrazia: la dove essa non è in grado di governare processi (veloci, complessi, pluriscalari), subentrano “naturalmente” altre forze, più adatte a dirigerli. Siamo già abbastanza avanti in questo de-potenziamento democratico e del resto analisti ed osservatori convergono su queste preoccupazioni e su queste critiche. Tutto questo appare in contraddizione con quanto predicato formalmente dalle grandi istituzioni globali tra FMI e BM, e a altre agenzie NU, che nei loro documenti danno per acquisito che si può avere sviluppo solo se equo e sostenibile, e solo sul fondamento di solide istituzioni democratiche e dentro le regole dello stato di diritto. I fatti mostrano che la realtà è ben più variegata, anche solo pensando al caso cinese, che poi è quello dirimente. E inoltre anche il riferimento crescente (OCSE per esempio) a sostenibilità, equità e coesione, e infine a libertà come capacitazioni (A. Sen) sembra quasi un richiamo ai processi reali perché non dimentichino il proprio fondamento liberale.

Dobbiamo dare per verosimile il fatto che il capitalismo sia anche in grado di assorbire queste istanze, sotto molti aspetti più esigenti di quelle precedenti, evolvendo in varie dimensioni e riciclando anche le esigenze apparentemente più critiche, come quelle della sostenibilità. Viceversa non sappiamo come si comporterà la democrazia. Non dobbiamo farci oscurare la vista dalle tendenze attuali in cui la subalternità della democrazia e la sua funzionalità nelle forme attuali perfino alle forme più violente ed esasperate accumulazione globale sono così evidenti.

Ci interroghiamo sulla sostenibilità democratica. Cioè se la democrazia sia capace di governare la transizione ecologica (un lungo passaggio storico caratterizzato dal diventare più sostenibile di ogni processo, ed insieme da una strategia di adattamento e contenimento dei rischi da mutamento climatico), e se lo stesso regime democratico debba intendersi come un sistema sostenibile (nel tempo ed ora anche nello spazio): s'intende con tutta la varianza macroregionale possibile, pensando alle grandi culture “universali” indiane o cinesi o islamiche. Si tratta di due questioni distinte ma correlate: solo se la democrazia è regime sostenibile può affrontare le questioni critiche della sostenibilità. Naturalmente non blocchiamoci su esigenze apodittiche, inutili e perverse in queste materie. Enunciamo qui solo gli statement basilari, rinviando ad altro intervento i necessari approfondimenti e qualificazioni.

La democrazia è un regime politico che esige la progressiva democratizzazione di tutti gli ambiti di vita nella società. Ciò viene ottenuto con progressive capacitazioni delle sue componenti e dei suoi membri visti come cittadini attivi. Tutto ciò è già indicato anche nei primi articoli della nostra Costituzione. La democrazia è un regime di apprendimento di preferenze progressivamente “migliori”in un qualche senso ragionevole del termine. E perciò la democrazia è un regime che tende all'autoriforma, alla costante miglioria delle proprie istituzioni (come delle culture politiche, della cultura civica, dei diritti fondamentali). Sotto questo profilo la democrazia è l'unico regime in grado di affrontare questioni complesse come la crisi ambientale. Regimi autoritari o autocratici, per converso, che possono localmente esser funzionali anche al capitalismo, non sono in grado di fare fronte a sfide che richiedono mobilitazione di risorse cognitive e civiche notevoli. Ma nelle condizioni attuali la democrazia si sta allontanando dal suo profilo ideale (che qui vuol dire: normativo e costituzionale) e quindi quelle sue inerenti capacità in realtà risultano molto più modeste. E per contro in Cina un regime decisamente autoritario, anche se di fatto non più totalitario, è in grado di ante vedere molti sviluppi e di pianificarne con efficacia i percorsi, anche verso una maggiore sostenibilità (Stern, Piketty). Si vede che il giudizio deve essere molto più articolato. Ma intanto ne deriva che per poter affrontare seriamente la transizione abbiamo bisogno di una democrazia un po' più seria e più “sostenibile” di quella corrente. Potremo anche dire, se non appare troppo estremo, che la democrazia va rivitalizzata anche e soprattutto per questo scopo, se i rischi di questa epoca vanno presi sul serio. (> Leggi e scarica l'articolo per "Parole Chiave")

 

 

 

 

LO SPIRITO DEI TEMPI

di Carlo Donolo

 

I tempi che corrono sono sempre pessimi e malvagi. Il passato ci appare trasfigurato, come qualcosa che abbiamo perduto. E la tentazione di lodare ciò che è tramontato è sempre forte, specie in tempi vissuti come crisi permanente. Il presente è fatto di incertezze ed instabilità. Tutto ciò che sembrava solido crolla nella confusione e nella disattenzione. Il futuro è imprevedibile, certo sarà pieno di cigni neri, che da rari diventeranno onnipresenti. Tutto è maledettamente imbrogliato e non sappiamo né farcene una ragione, né trovare un bandolo che ci permetta di sperare in una qualche governabilità dei processi. Siamo sempre dentro passaggi e transizioni, in un ritmo accelerato e incostante, con continue sorprese e choc, mentre problemi e soluzioni si rincorrono all’infinito in una giostra che ci appare sempre più malvagia e infernale. Non c’è bisogno di essere catastrofisti, tanto le catastrofi avvengono. A essere ottimisti non si sarebbe creduti, sarebbe solo retorica della volontà Ci si sforza di essere realisti, specie quando si considerano aspetti sistemici del reale, il globale, la dimensione geopolitica, i rapporti di forza, le egemonie di fatto. A questo esercizio mi applico anch’io, a proposito di un tema che sempre evoca pregiudizi, forzature ideologiche, semplificazioni e veri e propri arbitri: quello del rapporto tra stato e mercato.

Questo tema ci introduce all'argomento della genesi di beni pubblici e della cura dei beni comuni, visti come fondanti ogni possibile legame sociale e ogni prospettiva di liberazione e capacitazione, e quindi anche di inveramento dei processi democratici. Parliamo di sfera pubblica, di funzione pubblica, di beni pubblici, di felicità pubblica.

Non è possibile però neppure iniziare un discorso di questo tipo, senza soffermarsi inizialmente su quella che appare una difficoltà insormontabile nel tempo attuale: tutto ciò che è pubblico è delegittimato e maltrattato, la funzione pubblica è in crisi e in rapida obsolescenza, la contrazione dello stato è in atto da tempo, le masse di individui disciplinati dal consumo più che dal lavoro sono invitate e invogliate a far da sé, lasciando perdere l’azione collettiva, il legame sociale, perfino la divisione sociale del lavoro: dai vizi privati scaturirà certamente qualcosa di positivo per il collettivo,che non deve più pensare a se stesso come qualcosa che ha qualcosa in comune. Contano diversità differenze, diseguaglianze, disparità disomogeneità come spartizioni, divisioni, derive, frammentazione e divisioni ostili: la società è fatta di un sociale antagonistico, non tra alto e basso, ma tra pari grado – e l’evoluzione del tutto è affidata a processi principalmente naturalistici, di seconda natura, agli effetti sistemici di soglie, vincoli e imperativi spacciati per naturali e necessari.

Veniamo al dunque, chiariamo per quanto possibile, questa galassia di questioni, galleggianti perennemente nella confusa e confusionaria sfera pubblica ipermediatizzata. Lo spirito del tempo in cui viviamo è caratterizzato da un attacco molto violento e con intenzione strategica allo “stato”, intendendo la modalità pubblica di gestire affari pubblici, ovvero di comune interesse (dei cittadini di un posto, come degli abitanti tutti del pianeta). In principio si nega che esistano affari pubblici e di conseguenza che sia necessaria una funzione pubblica. Tutto ciòche esiste è privato o privatizzabile e le relazioni tra individui e tra gruppi, ma anche tra popolazioni, macro-regioni del mondo e perfino la relazione stessa tra genere umano e natura deve e può essere trattata come un affare privato, non come un contratto sociale, ma proprio civilistico o al più da lex mercatoria.

Non si nega beninteso la necessità di uno stato minimo e di uno stato di diritto (basato su regolazioni giuridiche formali), ma questo è solo il costo da pagare alle imperfezioni del mercato stesso. Immaginandolo perfetto ed essendo comunque perfettibile, esso è in grado di trattare ogni tipo di “affare”, compresa la cura delle proprie esternalità e inefficienze e la produzione delle proprie regolazioni. In ogni caso e per intanto il mercato è posto come l’istituzione centrale della società globale. La sua regolazione avviene in gran parte tramite “contratti” stipulati in sedi istituite come il WTO e oggi il TTIP, che sono sì sedi politiche – in quanto vi sono attivi anche i governi formalmente democratici – ma che di fatto sono il luogo della registrazione delle preferenze dei poteri di fatto economici al momento dominanti.

 

 

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